L’ETC da genitore a
genitore [1]
Al
di là di una classificazione scientifica, quello che di più può servire ad un
genitore che si approccia all’ETC è la ricerca
costante di un legame tra le azioni quotidiane del bambino (di routine, ludiche…) e le attività della
palestra (si intendono, così, gli esercizi, fatti nella seduta riabilitativa),
per fare in modo che la modifica che è avvenuta durante il momento propriamente
riabilitativo (un apprendimento a livello cognitivo o motorio) non solo venga
ricordata dal bambino quando si trova a casa, ma anche riutilizzata nelle sue
attività quotidiane perché funzionale. Solo in questo modo il valore aggiunto
di questo tipo di riabilitazione, che passa attraverso l’apprendimento, potrà
essere espletato e ottimizzato.
E’
questo un aspetto nuovo dell’ETC, proposto ai genitori dalla Dott.ssa Puccini
come progetto di forte collaborazione, chiamato Esercizio e Realtà.
La
relazione terapista-genitore assume,
ancor più di prima, un valore profondo: uno scambio di informazioni fondamentale che
permette al genitore di condividere i micro obiettivi del terapista, i piccoli
passi essenziali per arrivare alla macrofunzione del movimento e del linguaggio
del bambino, di riconoscere quelle che in gergo gli operatori chiamano azioni guida. Quelle
azioni, cioè, che possono essere individuate dal terapista nei racconti dei genitori e isolate
come importanti anelli , riutilizzabili anche in palestra, per il conseguimento e il mantenimento degli
obiettivi.
Un esempio.
Gianna è una
bambina di quasi cinque anni con tetraparesi. Da un’intervista che le terapiste
hanno fatto a noi genitori è emerso che una delle attività preferite di Gianna
è completare gli album con gli stickers: le piace che le vengano messe due
figurine, ciascuna nel dorso di una mano, dopo che le sia stato spiegato o
richiamato in qualche modo il contenuto (“qui hai una mela, di qua una
farfalla”; “qui hai Trilly, di qua Peter Pan”, “qui hai un fiocco rosso, di qua
uno celeste”). Quindi chi gioca con lei prenderà la pagina dell’album con
l’immagine mancante e chiederà a Gianna di passare quella giusta; Gianna (che
non parla ancora) si guarda le manine e
allunga quella che ritiene giusta. Da questo giochino (che a casa resta tale,
non diventa esercizio), Elena[2],
la terapista del motorio di Gianna, ha
riconosciuto un’azione guida: l’allungamento dell’arto superiore; questa azione
viene riutilizzata in palestra in un
contesto simile all’attività delle figurine per fare in modo che la bambina sperimenti in modo consapevole il movimento del suo braccio e della mano nella
localizzazione e nel raggiungimento dell’oggetto (obiettivi preposti da Elena),
nel modo più fluido possibile.
Sempre a partire dagli stickers e, in particolare, da
un album che ritraeva le espressioni del volto con figure semplici e grandi,
Rita[3],
la logopedista, ha ricreato e sintetizzato
il gioco in modo che Gianna potesse riconoscere con chiarezza e sicurezza la
bocca, gli occhi, il naso, sul disegno, ma anche su se stessa (il corpo è il
primo strumento per comunicare, mi insegnano). Da qui è stata isolato un binomio chiave: aperto/chiuso. Gianna doveva riconoscere
la bocca aperta e chiusa nell'immagine, ma anche facendolo lei stessa. Il
collegamento con la quotidianità è immediato e rafforza decisamente in Gianna
quello che viene fatto nell'ora di terapia. A casa, infatti, in mille momenti
quotidiani di routine Gianna apre e chiude la bocca: quando mangia lei, quando
mangia la sorellina, quando le si mette il burro di cacao... Ma aperto / chiuso diventa anche un
denominatore comune, una parola chiave per riconoscere (con la semplificazione
degli opposti) mille situazioni diverse (la porta aperta/chiusa; la mano
aperta/chiusa…), per maturare una competenza linguistica in un mondo di parole ancora troppo
complesso, per raggiungere un prerequisito del linguaggio che passa dal corpo.
I genitori osservano i propri
bambini in mille momenti diversi, colgono attimi che svelano mille
potenzialità. Non sempre hanno però gli strumenti per interpretarle e svilupparle.
Anche a questo mi è servito il
confronto con le terapiste, ad osservare meglio mia figlia, a cercare di capire
il linguaggio del suo corpo.
Mi è capitato a volte di non sapere “a
che gioco giocare con Gianna”. Dopo tante domande, tanti colloqui, sto iniziando, non senza difficoltà, a trovare piccoli giochi, quelli in cui Gianna è più naturale e il suo
movimento più fluido. E ho scoperto che ciò che a lei piace può anche farle
bene nel suo lungo percorso riabilitativo. Un percorso che mette Gianna al
centro, nella sua interezza.
La mamma di Gianna
[1] Tale
post non ha nessuna valenza scientifica, si tratta solo di una riflessione fatta dal punto di vista
di mamma di una bambina di cinque anni con tetraparesi e che segue un percorso
riabilitativo con ETC dai due mesi di vita.
[2] De Feo,
terapista al centro di Neuroriabilitazione dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa.
[3] Tavella,
terapista al centro di Neuroriabilitazione dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa