domenica 19 luglio 2015

Un'esperienza




L’ETC da genitore a genitore [1]

Al di là di una classificazione scientifica, quello che di più può servire ad un genitore che si approccia all’ETC  è la ricerca costante di un legame tra le azioni quotidiane del bambino (di routine, ludiche…) e le attività della palestra (si intendono, così, gli esercizi, fatti nella seduta riabilitativa), per fare in modo che la modifica che è avvenuta durante il momento propriamente riabilitativo (un apprendimento a livello cognitivo o motorio) non solo venga ricordata dal bambino quando si trova a casa, ma anche riutilizzata nelle sue attività quotidiane perché funzionale. Solo in questo modo il valore aggiunto di questo tipo di riabilitazione, che passa attraverso l’apprendimento, potrà essere espletato e ottimizzato.
E’ questo un aspetto nuovo dell’ETC, proposto ai genitori dalla Dott.ssa Puccini come progetto di forte collaborazione, chiamato Esercizio e Realtà.
La relazione terapista-genitore  assume, ancor più di prima, un valore profondo: uno scambio di informazioni fondamentale che permette al genitore di condividere i micro obiettivi del terapista, i piccoli passi essenziali per arrivare alla macrofunzione del movimento e del linguaggio del bambino, di riconoscere quelle che in gergo gli operatori chiamano azioni guida. Quelle azioni, cioè, che possono essere individuate  dal terapista nei racconti dei genitori e isolate come importanti anelli , riutilizzabili anche in palestra,  per il conseguimento e il mantenimento degli obiettivi. 

Un esempio.

Gianna è una bambina di quasi cinque anni con tetraparesi. Da un’intervista che le terapiste hanno fatto a noi genitori è emerso che una delle attività preferite di Gianna è completare gli album con gli stickers: le piace che le vengano messe due figurine, ciascuna nel dorso di una mano, dopo che le sia stato spiegato o richiamato in qualche modo il contenuto (“qui hai una mela, di qua una farfalla”; “qui hai Trilly, di qua Peter Pan”, “qui hai un fiocco rosso, di qua uno celeste”). Quindi chi gioca con lei prenderà la pagina dell’album con l’immagine mancante e chiederà a Gianna di passare quella giusta; Gianna (che non parla ancora) si guarda le manine  e allunga quella che ritiene giusta. Da questo giochino (che a casa resta tale, non diventa esercizio), Elena[2], la terapista del motorio di Gianna,  ha riconosciuto un’azione guida: l’allungamento dell’arto superiore; questa azione viene  riutilizzata in palestra in un contesto simile all’attività delle figurine per fare in modo che la bambina sperimenti in modo consapevole il movimento del suo braccio e della mano nella localizzazione e nel raggiungimento dell’oggetto (obiettivi preposti da Elena), nel modo più fluido possibile.

Sempre a partire dagli stickers e, in particolare, da un album che ritraeva le espressioni del volto con figure semplici e grandi, Rita[3], la logopedista,  ha ricreato e sintetizzato il gioco in modo che Gianna potesse riconoscere con chiarezza e sicurezza la bocca, gli occhi, il naso, sul disegno, ma anche su se stessa (il corpo è il primo strumento per comunicare, mi insegnano). Da qui  è stata isolato un binomio chiave: aperto/chiuso. Gianna doveva riconoscere la bocca aperta e chiusa nell'immagine, ma anche facendolo lei stessa. Il collegamento con la quotidianità è immediato e rafforza decisamente in Gianna quello che viene fatto nell'ora di terapia. A casa, infatti, in mille momenti quotidiani di routine Gianna apre e chiude la bocca: quando mangia lei, quando mangia la sorellina, quando le si mette il burro di cacao... Ma aperto / chiuso diventa anche un denominatore comune, una parola chiave per riconoscere (con la semplificazione degli opposti) mille situazioni diverse (la porta aperta/chiusa; la mano aperta/chiusa…), per maturare una competenza linguistica  in un mondo di parole ancora troppo complesso, per raggiungere un prerequisito del linguaggio che passa dal corpo.

I genitori osservano i propri bambini in mille momenti diversi, colgono attimi che svelano mille potenzialità. Non sempre hanno però gli strumenti per interpretarle e svilupparle.
Anche a questo mi è servito il confronto con le terapiste, ad osservare meglio mia figlia, a cercare di capire il linguaggio del suo corpo.
Mi è capitato a volte di non sapere “a che gioco giocare con Gianna”. Dopo tante domande, tanti colloqui, sto iniziando, non senza difficoltà, a trovare piccoli giochi, quelli in cui Gianna è più naturale e il suo movimento più fluido. E ho scoperto che ciò che a lei piace può anche farle bene nel suo lungo percorso riabilitativo. Un percorso che mette Gianna al centro, nella sua interezza. 
La mamma di Gianna 


[1] Tale post non ha nessuna valenza scientifica, si tratta solo  di una riflessione fatta dal punto di vista di mamma di una bambina di cinque anni con tetraparesi e che segue un percorso riabilitativo con ETC dai due mesi di vita.
[2] De Feo, terapista al centro di Neuroriabilitazione dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa.
[3] Tavella, terapista al centro di Neuroriabilitazione dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa